Dicesi dicotomia “(…) divisione o suddivisione in due parti (anche in senso fig., per es. la scissione o frattura o una forte divergenza di opinioni in un organo direttivo, in un partito o sindacato, ecc.); bipartizione, separazione netta tra due elementi” (Vocabolario Treccani)

Perché ho trascritto la definizione Treccani di dicotomia? Perché vivo all’estero da molto tempo, ho amici e conoscenti in molti paesi europei e ho la netta sensazione che non esista paese, almeno nel continente, che esprima tanta dicotomia concettuale quanto l’Italia.

Un approccio manicheista alla realtà sembrerebbe essere una delle matrici esistenziali ed intellettuali del Bel Paese: non si riesce ad essere a favore di qualcosa senza necessariamente essere contro qualcos’altro, non è accettato socialmente, non è considerato giusto intellettualmente e forse neppure moralmente. Come se un’opinione non abbia diritto d’esistere se non in contrapposizione ad un’altra; ed è cosi in tutto, è un modus operandi che va dalla politica alla cultura.

A tal proposito, mi hanno fatto venire i brividi qualche tempo fa certi commenti ad un articolo apparso su un quotidiano nazionale circa l’ultimo film di Guadagnino Call me by your name. Parafrasando, molti andavano in questa direzione: “Non capisco come tutta Italia vada dietro a Sorrentino, quando Guadagnino è mille volte meglio”, oppure “Guadagnino non è allo stesso livello di Sorrentino”.

Ma perché intavolare la discussione in questo modo? Perché mettersi in una situazione dove la propria opinione può esistere solo e soltanto in contrapposizione ad un’altra? Nel contesto specifico dell’Arte poi, non si può amare il cinema di Guadagnino e quello di Sorrentino allo stesso tempo, seppur per ragioni evidentemente diverse? Perché si pensa e si giudica solo attraverso la divisione? Perché tutto deve essere, sempre, gestito come una partita di calcio? Il calcio è così bello – una bolla di semplicità all’interno della complessità dell’esistenza. Il calcio rilassa perché non c’è niente da capire. Perché rovinare la sua unicità cercando di semplificare la vita tutt’intorno? La vita invece è complessa e questa complessità merita rispetto.

Ci sono dualismi che hanno diviso il mondo (e l’Italia): Beatles o Rolling stones? Cane o gatto? De Niro o Pacino? Mare o montagna? Pelé o Maradona? Tè o caffè? Macchina italiana o tedesca? Aglio, olio e peperoncino o cacio e pepe? Sono dualismi che aiutano ad identificarci e che ci posizionano all’interno di un’ipotetica geografia sociale. Ma dovremmo fermare l’esercizio a questo e non andare oltre. Utilizzare la dicotomia come matrice di pensiero per scandagliare l’esistenza tutta è un melanoma intellettuale che sembrerebbe affliggere gran parte dell’Italia e ne svilisce ogni tipo di dibattito interno. Perché prevede la presa di posizione, quindi la faziosità e la semplificazione.

Pensare in maniera così manichea rende superficiali i ragionamenti e finisce per rafforzare cliché sociali obsoleti e da cui dobbiamo liberarci il prima possibile se vogliamo veramente competere in un mondo globale, aperto e che premia i più coraggiosi.

Nello specifico, le ultime elezioni politiche sono state un esempio cristallino di cosa può produrre un approccio del genere applicato al dibattito sociale. È sotto gli occhi di tutti (spero) quanto l’ultima tornata elettorale sia stata qualitativamente scadente a livello di contenuti, così come scadente è stato il risultato che ha rinforzato vecchi cliché: il sud fancazzista che vota Cinque Stelle per il reddito di cittadinanza, il nord etnocentrico e xenofobo che vota Lega per cacciare gli immigrati.

Chiaramente un voto di pancia, di reazione. Un voto contro, di conseguenza un voto vuoto. Non è un caso che M5S e Lega siano i due partiti che più d’ogni altra forza politica (addirittura più della sinistra radicale del nuovo millennio, il che è tutto dire!) hanno incarnato l’essere contro: contro l’Europa, contro l’Euro, contro gli immigrati, contro i politici di carriera, contro lo ius soli, contro l’aborto (addirittura, nel 2018!), contro, contro e ancora contro, una serie infinita di no.

Ma a far così son buoni tutti. Criticare è mestiere pericoloso perché distruggere è troppo facile. Creare, essere pro qualcosa, è la vera sfida e chi lo sa fare è un leader reale.

Scusate l’ovvietà, ma come non rispolverare una vecchia icona anni Sessanta? Martin Luther King, in quella splendida giornata di fine agosto a Washington, non ha detto io sono contro, e lui si che ne avrebbe avuto tutte le ragioni! Ha invece detto “io ho un sogno”, io sono a favore di qualcosa, io ho una proposta (non una critica) da fare. C’è una grande differenza che non può essere liquidata come mera scelta semantica perché, come diceva giustamente Moretti in Palombella Rossa: “Le parole sono importanti”. La scelta delle parole mostra agli altri come pensiamo e quindi come siamo.

Ma quali potrebbero essere le ragioni di questa dicotomia concettuale cronica di cui soffre il popolo italiano? Io ho provato a trovarne qualcuna:

La prima filosofica: l’idea della dicotomia bene-male è profondamente connaturata nel pensiero occidentale, tanto da essere considerata da grandi studiosi di ogni secolo ostacolo a molte riflessioni. La cultura occidentale nel suo insieme non è stata efficace, come ad esempio quella orientale, nel fondere questi due principi in un’unità inseparabile e quindi più complessa e completa.

La seconda storica: la Storia d’Italia è fatta di divisioni e contrapposizioni. Mai, neppure in epoca risorgimentale, si sono poste le giuste basi intellettuali ed emotive affinché un sano patriottismo potesse prosperare ed unire il popolo italiano all’interno di una narrativa e di un interesse comune. L’unico momento nella nostra Storia in cui siamo stati ‘uniti sotto la bandiera’, ahimè, è stato il fascismo, dove l’uso di un sano patriottismo si è velocemente trasformato in nazionalismo. Emotivamente ed intellettualmente stiamo ancora pagando quella drammatica ed oscura esperienza, senza esser riusciti a trovare, nelle varie fasi post-belliche, le dovute energie per guarirci e crescere. Non è un caso che oggi ci si vergogni ancora nel dichiararsi fieramente italiani, perché è troppo facile esser accusati di fascismo; e, allo stesso modo, quando qualcuno ci prova ad essere patriottico, sbaglia sempre i modi ed i tempi.

La terza antropologica: una delle fascinazioni ed espressioni della cultura italiana è l’essere furbo, scaltro. La furbizia è vista, in Italia, come simbolo d’intelligenza. Ma nel paese dei furbi, nessuno si fida di nessuno. Quindi, non appena si ha il coraggio di alzare la mano e proporre qualcosa di nuovo o di autentico, si viene guardati con diffidenza, come a dire: “Dove ci vuoi fregare?”. In questa atmosfera di generale sfiducia verso il prossimo, l’essere contro aiuta ad essere presi sul serio. Puntare il dito ci aiuta ad apparire puri e conquistare seguaci.

La quarta sociologica: si è rimasti ancorati a concetti sociali novecenteschi da guerra fredda: il popolo e il capitale, il comunismo e il libero mercato, il padrone e il proletario, senza veramente prendere coscienza di quanto la società sia mutata negli anni. E così, saltando superficialmente da una categoria all’altra, si è giunti a disdegnare una sinistra moderata che ha provato a stare al passo con i tempi, mentre ci si innamorava di demagoghi trasformisti, confusi per la voce del popolo.

A ben guardare, rimangono tanti dubbi sulle forze di governo, dubbi già dal titolo: Movimento Cinque Stelle. Un nome che puzza tremendamente di finzione, di ricerche su big data e sondaggi incrociati. In questo senso, il M5S si mette di diritto in scia al berlusconiano Forza Italia e al macroniano La Republique En Marche!

Ma come cantava Rino Gaetano: “Mio fratello è figlio unico perché non ha mai criticato un film senza prima vederlo”. Allora godiamocelo questo film e diamo l’opportunità a chi se l’è guadagnata. Le premesse per un finale drammatico ci sono tutte. Ma sia chiara una cosa: se sarà dramma, a fallire non sarà il governo giallo-verde, ma tutti noi italiani malati di dicotomia acuta.