27 Agosto 2008, ore 12:00. Ci sono 24 gradi ed in Sudafrica è pieno inverno. Un sole accecante mi abbaglia mentre entro nel cortile di uno dei tanti college privati di Johannesburg. Atmosfera molto inglese, è tutto estremamente pulito, le aiuole curate al millimetro, il campo da rugby sembra un prato di Buckingham Palace. Sono a Johannesburg da tre settimane e devo dire che quest’ordine e questa pulizia mi rasserenano un po’ l’animo.
Indosso gli abiti più formali che ho: Clarks nere ai piedi, jeans neri ed una camicia di lino beige. Oggi è un giorno speciale, oggi incontrerò Nelson Mandela.

All’ingresso della scuola vengo accolto dai classici sorrisi sudafricani – la gentilezza e la cordialità in questo paese sono infinite, un vero toccasana per il cuore di un italiano che vive nella fredda e scorbutica Berlino. Mostro il mio ‘press pass’ agli agenti del servizio di sicurezza, che mi dicono di aprire e passare sotto lo scanner la mia borsa fotografica. Tutto in ordine, posso entrare.
Vengo accompagnato, insieme ad altri colleghi giornalisti, nella sala dove si terrà l’evento: un incontro tra Mandela e la rappresentazione sudafricana ai mondiali di calcio under-13. Un evento piccolo ma significativo in un Sudafrica che si sta preparando ad ospitare i Mondiali del 2010.

La sala non è né più né meno di una normalissima aula magna universitaria. Una folta schiera di giornalisti riempie già le prime tre file di banchi e circonda con veemenza una ventina di bambini che indossano la tuta della nazionale sudafricana. Dannazione sono in ritardo, mi dico. Ma non demordo, studio velocemente l’aula e mi dirigo nell’angolo in alto a sinistra, esattamente all’opposto della porta d’ingresso. Sono completamente solo, qualche fotografo da lontano mi guarda stranito, ma io voglio avere uno scatto dell’intera sala nel momento in cui Mandela entrerà. Tiro fuori dalla borsa la mia Canon 5D e inizio a fare dei test di luce ed angolazione. Trovo la mia postazione definitiva, la camera è accesa e ben salda al collo. Sono pronto, mi dico. L’adrenalina mi tiene particolarmente reattivo e ansioso: sto per incontrare Nelson Mandela, che voce avrà?, come sarà vestito?, non devo fare cazzate, è solo il secondo assegnato che becco dall’agenzia, l’agenzia è stata fondata da Joao Silva, Joao lo vedo questo pomeriggio da Crusty insieme a Naude e gli altri, berremo birra e giocheremo a biliardo come sempre, ma vorrei anche fargli vedere qualche buona foto, anzi vorrei che fosse sorpreso dalla qualità dei miei scatti, forse è stata una stronzata sedermi qui, se ci sono solo io ci sarà pure un perché, merda, ho fame, vorrei farmi un’insalata di pollo al ristorante vicino all’ufficio dell’agenzia, e come faccio ad accorgermi che Mandela sta entrando?, devo fotografarlo appena entra altrimenti cosa mi ci sono seduto a fare qui?, comunque dalla porta alla scrivania dove si siederà ci sono dieci, quindici metri buoni, tutto spazio che percorrerà e che mi darà un po’ di tempo per trovare lo scatto giusto, forse dovrei mettere la macchina in scatto continuo, odio lo scatto continuo, un mitragliatore che spara alla cieca ed io cieco proprio non posso essere oggi, no meglio lo scatto singolo, e comunque gestendo la pressione del pulsante dell’otturatore arrivo anche a tre scatti al secondo, ho spento il cellulare?, l’ultima cosa che voglio è una telefonata dai miei per chiedermi come sto, ho le mani sudate, Ugo Fantozzi, non devo fare cazzate, oggi non puoi proprio fare la figura del minchione, Emanuele, c’è tanta luce naturale che entra dai due finestroni ai lati dell’aula, questo è un bene, ho impostato l’esposizione in modo tale da non bruciare i toni alti ma qui sono tutti di colore, Mandela è di colore, devo alzare l’esposizione altrimenti i volti delle persone saranno troppo scuri, meglio sottoesposti che sovresposti è la regola, ma la luce è forte, i toni alti sono sparati qui dentro quindi i toni bassi risulteranno scurissimi se non alzo l’esposizione, le macchine fotografiche sono decisamente razziste (e lo sono davvero!), che cazz…

All’improvviso decine di macchine fotografiche iniziano a scattare a ripetizione e scandiscono il tempo con il loro suono frenetico, meccanico e gentile. Degli uccellini di metallo. Mi alzo in piedi, prendo posizione, aumento al volo gli ISO da 200 a 400 (la ‘pellicola digitale’ diventa più sensibile, quindi ‘succhia’ più luce, l’esposizione aumenta di conseguenza ed i volti delle persone di colore saranno più illuminati. Aumenterà anche la grana digitale sulla foto, ma è una controindicazione che a me piace, e poi non voglio perdere la distanza focale che ho impostato), passano alcuni secondi e Nelson Mandela entra nell’aula.

Scatto con un 35 mm fino a che Mandela non si siede alla scrivania. Trovo sia un’ottima soluzione in quelle condizioni: descrive lo spazio senza donare un effetto grandangolare, quindi ottengo una descrizione dell’intera scena senza perdere d’intimità con quello che succede.
Mi rimetto la borsa a tracolla e scendo le gradinate dell’aula fino a trovarmi a ridosso dell’ultima fila di giornalisti. Ho una visuale piuttosto centrale, interessante ma non troppo. Scatto qualche foto mentre Mandela si guarda intorno e posa per fotografi e video-operatori. Ma non sono contento della posizione. La rampa di scalini alla mia sinistra è semivuota, molti giornalisti sono stati scoraggiati dalle due grandi telecamere che occupano una parte consistente di quello spazio, alla destra di Mandela. Mi piego come Quasimodo e passo sotto gli obbiettivi delle telecamere fino a raggiungere la prima fila a pochi passi da Mandela e dai ragazzi della nazionale.

Nella sala cala il silenzio quando Mandela inizia a parlare. La sua è la voce di un dio: profonda, vellutata, malinconica ma forte, fiera, gentile, amichevole, compassionevole. È la voce di un uomo completo, compiuto. La voce di un essere umano degno di tale nome. È la sensazione di un attimo, l’adrenalina non mi permette di percepire oltre, ma è una sensazione talmente forte che mi rimarrà scolpita dentro per sempre. Ancora oggi cerco quella voce negli uomini e nelle donne intorno a me, la voce di un essere umano compiuto.

Scatto diverse foto e copro l’evento giornalisticamente parlando. Ho già tutto quello che servirà all’agenzia, mi dico. Ma non mi basta, voglio di più, voglio Mandela. Voglio fargli un ritratto, voglio stringergli la mano, voglio dirgli grazie, voglio i suoi occhi per un attimo solo per me.
Come fare? Devo raggiungere la porta dell’aula prima che finisca l’evento, uscire ed aspettare Mandela fuori dalla porta. Genio. Mi viene in mente una citazione dal film Amici Miei: “Cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”. Dunque, che opzioni ho? Passare davanti alla prima fila vorrebbe dire camminare tra i ragazzi della nazionale e Mandela, impraticabile. Devo risalire e fare il giro…puttana eva!…e dai, l’evento sta per finire, tutti i ragazzini si sono presentati, hanno abbracciato e baciato il vecchio Madiba, devo fare in fretta.

Faccio di corsa il giro dell’aula e giungo alla scalinata opposta, quella che termina davanti alla porta d’ingresso. E qui c’è il delirio. Una montagna di giornalisti, da scalare o da traforare. Opto per le picconate e, stringendo ed allargando i gomiti all’altezza dei loro bacini, riesco ad arrivare davanti alla porta.
Devo aver creato un po’ di scompiglio, o forse è il mio sguardo felice e malizioso ad attirare l’attenzione della guardia del corpo di Mandela (nella foto, l’uomo in giacca a sinistra). Sta di fatto che subito dopo aver incrociato il mio sguardo, si avvicina alla porta d’ingresso e dice all’addetto alla sicurezza: “Nobody, and I mean Nobody, gets out of this room before Madiba. Especially him!” e mi punta il dito contro. Mi metto a ridere, altri giornalisti intorno a me si mettono a ridere, lui sorride e ritorna al fianco di Mandela.
Il mio piano geniale è rovinato, il mio sogno di ritrovarmi per qualche secondo da solo davanti ad una delle più grandi icone dell’Umanità è infranto. C’è una parte di me che è veramente, profondamente avvilita; un’altra invece mi sprona a scattare il ritratto migliore che possa riuscire a fare in queste condizioni, non appena Mandela mi passerà davanti.

E così faccio. Il vecchio Madiba si alza e cammina lentamente verso di me, aiutato dal bastone e dalla sua assistente personale. Inizio a scattare, alla ricerca di quel ritratto che mi sono promesso di trovare. Scatto tre immagini, poi Mandela si ferma e mi guarda. È l’attimo perfetto, scatto una quarta foto, ma esattamente in quel momento vengo spintonato da dietro. Niente è finita, mi dico, poi Mandela si ferma e rivolto a noi giornalisti dice: “Thank you for coming. Enjoy your life!” e sorride. Io scatto una quinta fotografia, quella definitiva. Il ritratto migliore che potessi fare.

Mandela è perfettamente illuminato dalla luce naturale che entra dalla finestra alle mie spalle, controbilanciata dalla sorgente di luce opposta, che invece illumina lo spazio circostante.
Pur sostenuto dall’assistente da una parte e dal bastone dall’altra, il corpo anziano di Madiba risulta ancora possente e ben eretto, mentre la prospettiva dal basso accentua la sua naturale altezza (Mandela era alto più di 1.90 m). Tutte le linee prospettiche della stanza (nella foto, in verde) e delle braccia (nella foto, in rosso) puntano in un’unica direzione: il suo volto.

Volto che incornicia alla perfezione uno sguardo limpido e vigoroso, come se tutta l’energia e l’attenzione che coagula verso di sé, Madiba ce la restituisse ancora più bella attraverso i suoi occhi. Occhi leggermente rivolti verso l’alto, verso di noi e oltre, verso quell’orizzonte visionario che l’ha tenuto in vita per 27 anni di carcere senza mai cedere a compromessi e che l’ha fatto diventare il padre di una nazione che ha sconfitto uno dei regimi più ingiusti, atroci e sanguinosi della Storia.

Scatto questa foto, poi altre due, e Mandela esce dalla sala.
I giornalisti si rilassano, iniziano i primi chiacchiericci, le telecamere vengono smontate, in tanti si incamminano verso l’uscita. Io invece mi siedo in un angolo e controllo le ultime foto. Vado dritto al terzultimo scatto. Si, è decisamente il migliore. Sul piccolo schermo LCD della mia fotocamera, ingrandisco l’immagine fino ad incorniciare solamente il volto di Madiba. Grazie a dio è a fuoco, mi dico. Fisso il suo sguardo intensamente e sorrido. Penso a me, a chi sono: ho 24 anni e solo due anni fa mi trovavo ancora a Roma a studiare Economia e a sognare di fare il fotoreporter. Oggi, davanti a questo volto meraviglioso, posso dire d’esserlo diventato.

La foto finale, quella che conservo gelosamente nel mio studio, è in bianco e nero ed è stata ritoccata più volte negli anni. Ci sono state apportate correzioni che l’etica giornalistica non mi avrebbe consentito di fare. Ma non importa, l’originale a colori è stata venduta intatta alla stampa sudafricana, mentre questa foto è soltanto per me.

Questo ritratto non parla solo di Mandela, ma anche e sopratutto di me. Delle mie emozioni in quel preciso istante e dei significati che man mano trovavo ogni volta che, a distanza di tempo, aprivo photoshop e ci ritornavo sopra.
Per molti anni ho cercato significati nella mia vita attraverso la descrizione di quella degli altri. Con la mia macchina fotografica tentavo di rendermi partecipe delle ragioni altrui. Fotografavo, immortalavo momenti intimi nelle vite di sconosciuti e pensavo che così facendo un pezzettino dei loro significati mi venisse offerto in omaggio. Ero troppo giovane ed inesperto per capire. E così ho continuato a collezionare foto, pezzi di un puzzle a me estraneo ed ignoto, senza mai realmente accorgermi che il continuo ritocco del ritratto di Mandela mi stava indicando la giusta via per capire me stesso: è più importante concentrarsi sulle proprie emozioni piuttosto che ‘mettere a fuoco’ le ragioni di chi le ha generate.
Non è un caso che l’evoluzione della mia ricerca artistica con gli anni mi abbia fatto allontanare dalla fotografia per avvicinarmi alla scrittura, uno strumento di ricerca a me più intimamente affine.

Oggi sono passati dodici anni da quello scatto e sette dalla morte di Nelson Mandela. Oggi per me è bello tornare su questa foto e guardare a ciò che sono stato con un sorriso compiaciuto e benevolo, ed è bello più che mai ricordare i significati che quest’uomo ha incarnato e pensare che, per qualche istante, i nostri sguardi si sono incrociati e le nostre vite si sono incontrare. Quale onore! Grazie, Madiba.